Le congregazioni dei gesuiti di S. Fedele e gli oratori in musica dell'Entierro

Danilo Zardin

 

[Riprendiamo con minimi adattamenti il testo inserito come cap. 25 nel recente volume di D. Zardin, I fili della storia. Incontri, letture, avvenimenti, Bari, Edizioni di Pagina, 2014, pp. 113-116, qui con il titolo: Il Seicento e l’arte del canto per ‘rivivere’ la passione di Cristo.]

 

I grandi santi e i leaders carismatici del rinnovamento cattolico da cui è uscita la Chiesa dei tempi moderni non si accontentavano di mezze misure. Catturati da un ideale totalizzante, volevano che il mondo in cui vivevano ne fosse investito e ne avvertisse il fascino profondo. Come scrisse uno dei loro seguaci agli inizi del 1600, bisognava darsi da fare, cominciando dai vertici delle élites nobiliari, dalle classi colte e dai ceti di governo, per creare un «mondo nuovo», dove fossero «banditi i vizi dalla terra» e potesse rifiorire una seconda «età dell’oro»[1]. La loro ambizione era la «vera e perfetta riforma»: sull’esempio di coloro che avevano dato vita alla splendida cristianità delle origini, la rigenerazione che ci si attendeva avrebbe dovuto portare come frutto quello di «riformare il mondo a vera vita cristiana»[2].

C’era anche una vena utopica in queste aspirazioni che si dilatavano all’intero orizzonte della società umana allora conosciuta. Ma la cosa grandiosa è che l’utopia della riforma cristiana del XVI-XVII secolo non è rimasta una proclamazione retorica. Si è impastata con la storia e i problemi degli uomini. Si è calata nelle fibre della loro esistenza e si è dotata di tutta una complessa attrezzatura di strumenti, di tecniche e di proposte educative per raggiungere la coscienza degli individui e plasmare i loro comportamenti, le loro trame di relazione, il modo in cui si viveva la famiglia così come il lavoro o l’innesto nella comunità civile. Occorrevano parole nuove. Una nuova scuola. Quindi nuovi testi da far circolare, una predicazione più incisiva, un nuovo clero, una nuova cultura, una nuova arte, una nuova musica, una mentalità cambiata. Il pilastro di appoggio fondamentale per diffondere la presenza cristiana all’interno della realtà sociale divenne, a partire da allora, la rete delle confraternite dei laici. Anche su questo fronte i religiosi della Compagnia di Gesù, nata dal carisma trascinante di Ignazio di Loyola a metà del 1500, furono tra i pionieri più lungimiranti del nuovo cattolicesimo in via di costruzione[3].

Dovunque mettevano radici, li vediamo impegnati nel favorire lo sviluppo di una rete di aggregazioni a cui si legavano i gruppi numerosi di fedeli che accettavano di essere accompagnati da loro nell’approfondimento della vocazione cristiana. Non erano, però, aggregazioni che livellavano la grande varietà delle condizioni di vita della massa dei battezzati, riassorbendoli nella grigia uniformità di un gregge indistinto e solo subalterno. Per mettersi alla scuola dei gesuiti, non era necessario spogliarsi della propria identità di uomini con ben distinti doveri da esercitare per il bene complessivo della collettività. La trama delle confraternite create facendo perno intorno ai collegi di istruzione e alle case della Compagnia di Gesù si sovrapponeva, al contrario, alla gerarchia strutturata del corpo sociale: in essa rifluivano la realtà diversificata delle professioni, le solidarietà di ceto, la logica delle preferenze e delle amicizie fra persone della medesima cerchia.

La storia della presenza dei gesuiti nella realtà urbana di Milano è la conferma eloquente di questa strategia di oculato radicamento. Già all’aprirsi del 1600, intorno alla casa dei gesuiti di S. Fedele gravitavano tre distinte congregazioni mariane: una per i nobili o «cavalieri», una per i mercanti e la terza per gli artigiani. Più tardi presero avvio una confraternita di ecclesiastici, una seconda congregazione aristocratica dedita al culto della sepoltura o Entierro del corpo di Cristo e un oratorio della Penitenza. Un secolo dopo, all’inizio del 1700, i sodalizi ospitati dai gesuiti milanesi erano diventati 14, e altri ancora si aggiunsero nel secolo del tramonto dell’Antico Regime. Presero vita confraternite caritative per l’assistenza ai carcerati e ai mendicanti, una congregazione dei «figliuoli», una per gli uomini di legge, altri sodalizi ancora per le professioni più strettamente legate al servizio della nobiltà e dei ceti sociali elevati: per i paggi, per le cappe nere, per i parrucchieri, per gli staffieri, per i musici[4].

La marcia di espansione della proposta educativa dei gesuiti dentro il tessuto ramificato del corpo sociale si unì alla progressiva messa a punto del loro modello di uomo credente sostenuto dalla fede ma con i piedi ben piantati per terra, allenato a tenere unito lo spirito della devozione cristiana con le circostanze oggettive dei legami e delle responsabilità «di questo mondo». La terra e il cielo non potevano restare separati: l’amore per la salvezza eterna dell’individuo spalancava la vita al suo vero significato ultimo e dava un senso più alto alla fatica di ogni giorno. Per raggiungere i suoi destinatari, il messaggio lanciato dai gesuiti non esitava a piegare al proprio servizio i più efficaci mezzi di comunicazione offerti dalla cultura del loro tempo: l’arte della parola, il teatro, il linguaggio delle immagini, la stampa di largo consumo, il cerimoniale degli atti simbolici continuamente ripetuti nel tempo. Forse in cima a tutto il resto, si impose l’uso sapiente del canto e della musica per una pedagogia da rendere il più possibile dolce, penetrante, in grado di smuovere gli affetti del cuore partendo dai sensi terreni.

All’interno dell’impianto religioso allestito dai gesuiti di Milano, il vertice artisticamente più significativo divenne, a partire dai decenni terminali del 1600, il ciclo degli oratòri dei cinque venerdì di Quaresima patrocinato dai nobili della congregazione dell’Entierro. Al centro del sacro rito, l’esecuzione di una cantata affidata a cantori professionisti, su musiche ogni volta composte per l’occasione, consentiva di riattualizzare, per tappe successive, la memoria dei momenti cruciali della passione di Cristo, ripercorrendoli in serie come fossero le stazioni di una ideale via crucis. Oppure, in un’altra prospettiva, li rileggevano alla luce delle storie dell’Antico Testamento interpretate in chiave allegorica, o ancora soffermandosi su dettagli essenziali della vicenda culminante che aveva portato alla salvezza dell’uomo: come potevano essere le ultime parole proferite da Cristo morente, le lacrime dei testimoni del suo sacrificio, il ruolo della Madre dolorosa e degli amici più intimi rimasti attoniti ai piedi della croce. Una settantina sono i libretti sopravvissuti con i testi riprodotti per consentire al pubblico di seguire lo svolgimento della celebrazione, di cui abbiamo esemplari che arrivano fino all’ultima replica nell’anno che poi vide la soppressione dell’ordine dei gesuiti (1773). Di otto di queste cantate settecentesche si conserva anche la partitura musicale completa, sulla base della quale sono state realizzate le incisioni moderne attualmente in commercio[5].

Il brano qui riportato come semplice campione è il coro finale delle tre Marie nella cantata del V venerdì di Quaresima del 1759: L’addolorata divina madre [6].

Madre purissima,
Fonte d’amore,
Le piaghe stampami
Del tuo Signore
Nella più tenera
Parte del cor.
 
E delle barbare,
Atroci pene,
Che sì l’afflissero
Sol per mio bene,
Fa’ che dividasi
Meco il dolor.
 

La forza emotiva del testo evoca lo strazio di una ferita profonda del cuore, che però diventa subito preghiera, domanda di immedesimazione, quindi atto di compassione e di vera memoria: una memoria che rende di nuovo presente il mistero contemplato da un io che «guarda» e si mobilita in quanto intimamente partecipe. Ma questo Stabat mater rimesso in scena davanti alla platea aristocratica dei nobili milanesi del Settecento è solo una piccola finestra spalancata su un intero universo di pratiche e di gesti di cui arrivano fino a noi solo echi attenuati e pochi frammenti dispersi. Quanto basta, comunque, per percepire ancora il fuoco segreto che poteva covare sotto la fedeltà ostinata a una amata consuetudine[7].



[1]
Si tratta del gesuita Nicolas Caussin, confessore del re di Francia Luigi XIII, autore di La Cour sainte. Il passo è citato, dall’edizione di Rouen del 1655, in L. Châtellier, L’Europa dei devoti, trad. it. Garzanti, Milano 1988 (Paris 1987), p. 116.

[2] Per questo genere di linguaggio nelle fonti religiose cinquecentesche: M. Turrini, «Riformare il mondo a vera vita christiana»: le scuole di catechismo nell’Italia del Cinquecento, «Annali dell’Istituto storico italo-germanico in Trento», 8 (1982, ed. 1984), pp. 407-489.

[3] Ne spiega le origini con limpidezza esemplare, che resiste alle critiche della storiografia filo-inquisitoriale che predomina nel mondo accademico del nostro Paese, l’ampio saggio di J. W. O’Malley, I primi gesuiti, trad. it. Vita e Pensiero, Milano 1999 (Cambridge, Mass. 1993).

[4] Per tutta la documentazione mi trovo costretto a rimandare a un mio precedente sondaggio: Confraternite e «congregazioni» gesuitiche a Milano fra tardo Seicento e riforme settecentesche, in Ricerche sulla Chiesa di Milano nel Settecento, a cura di A. Acerbi e M. Marcocchi, Vita e Pensiero, Milano 1988, pp. 180-252.

[5] Le Sacre Cantate di Giovanni Battista Sammartini sono pubblicate da Naxos: 8.557431 (Maria Addolorata / Il pianto di San Pietro), 8.557432 (Il pianto degli Angeli della Pace), 8.570253 (Gerusalemme sconoscente ingrata) e 8.570254 (Della passione di Gesù Cristo / L'addolorata Divina Madre).

[6] Il brano è il n. 18 di Naxos 8.570254.

[7] Di queste incursioni in campo musicale delle congregazioni gesuitiche milanesi tratto più diffusamente in Musica e parola nell’azione educativa dei gesuiti: il caso di Milano tra Sei e Settecento, in La musica dei semplici. L’altra Controriforma, a cura di S. Nanni, Viella, Roma 2012, pp. 33-71 (volume pregevole per la ricchezza dei materiali e degli spunti che offre, sul versante dell’uso della musica come strumento della pastorale educativa della Chiesa moderna, in una larga cornice di contesti italiani e internazionali).

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